tra piazza fontana e rat-man,
Ragazzo,
ci siamo stati noi.
ucronista

- iskariel
- Paris, France
- Gaia Barbieri nasce e vive nonostante tutto come il basilico a Lausanne, da trentaquattro anni e più che altro per curiosità. ...JeSuisUnAutre...
tempi persi
venerdì 12 dicembre 2014
domenica 7 dicembre 2014
la frontex nella testa
Ma la gente
vogliono sapere le cose semplici.
Devi dirci le cose terra terra
papale papale, pane al pane, vino al vino,
parla come mangi e cioè male,
parla senza cura, parla all'ingrosso,
parla senza gusto e affrettati,
all'ingrasso! Che c'è lo sconto sugli affettati
(ma làit, eh).
Ma la gente
vogliono capire che ti hanno capito,
ci devi dare un civvì bello pulito,
che lavori i giorni feriali,
festeggi i festivi ma non troppo,
ci devi dire dove vivi, con chi,
(e meglio mentire sui giorni speciali),
ti chiedono chi ami e come,
foto data nome
nazionalità,
e lui che fa?
Soldi ce ne ha?
Ma più di tutto,
quel che interessa
è breve e asciutto:
uno cosa produci,
e due a che cosa serve.
A che cosa servi,
alla gente proprio ci piace di saperlo,
te lo chiedono spesso e devi poterlo
dire in fretta.
In fretta e saldi i nervi,
come "benegrazie"
dopo comestai.
Alla gente non gli piace
di sapere che non servi niente,
se non possono ordinarti
perché non odiarti?
Il tuo caos
non fa al caso loro.
Alla gente non ci piace di sapere che stai male,
che non sei normale,
che non fai doni di natale,
che ridi del giornale,
che a volte
balli nudo
e non è carnevale,
alla gente non gli va
di sentire che sei stanco
della festa,
che hai solo mal di testa
e mal di branco
che qui non ti diverti
come nel blu della foresta,
che hai ricordi aperti
e aspettative fluide
sul tempo che ti resta,
che non possiedi gli altri
e non li uccidi per dimenticarli,
la gente non capisce la tempesta,
sospetta
di chi non porta rancore,
alla gente piace onore, raffreddore, per favore,
non gli piace chi li chiama scimmie, è un traditore
della razza,
non gli piace tremore, nomadismo, stupore,
non gli piace il mare aperto figurati l'amore,
sei pazzo, sei pazza.
Alla gente fa paura
la strada, le porte aperte
sul mondo
e senza serratura,
pensa con orrore
allo stato di natura,
se l'uomo è un lupo
per l'altro uomo
ben venga il Leviatano,
viva il sovrano a lungo,
e poi ne sorga un altro,
più scaltro, più sano,
che non sia umano
il Potere, che sia un motore
ronzante in sottofondo,
immobile e lontano.
La Frontex veglia in silenzio
affinché ognuno resti inchiodato
al pezzo dov'è nato.
Condannato in Africa o in Europa?
Nordovest o sudest?
La risposta non si sposta,
e non dice niente,
ma è tutto quel che conta
per la gente.
(Ma un giorno
o forse una sera,
nonostante Tritone
passerò la frontiera
del nostro Mare
e sarò intera,
e se mai potrò fare
o commettere un figlio,
gli canterò che il lupo
non è il cattivo,
e gli dirò da grande corri forte
senza padrone,
guardati intorno,
non serve un cacciatore che spara,
e parla spesso con la morte
ma soprattutto alle persone,
e giocati tutto e impara, l'uomo
non è il cattivo,
da grande, resta vivo.)
vogliono sapere le cose semplici.
Devi dirci le cose terra terra
papale papale, pane al pane, vino al vino,
parla come mangi e cioè male,
parla senza cura, parla all'ingrosso,
parla senza gusto e affrettati,
all'ingrasso! Che c'è lo sconto sugli affettati
(ma làit, eh).
Ma la gente
vogliono capire che ti hanno capito,
ci devi dare un civvì bello pulito,
che lavori i giorni feriali,
festeggi i festivi ma non troppo,
ci devi dire dove vivi, con chi,
(e meglio mentire sui giorni speciali),
ti chiedono chi ami e come,
foto data nome
nazionalità,
e lui che fa?
Soldi ce ne ha?
Ma più di tutto,
quel che interessa
è breve e asciutto:
uno cosa produci,
e due a che cosa serve.
A che cosa servi,
alla gente proprio ci piace di saperlo,
te lo chiedono spesso e devi poterlo
dire in fretta.
In fretta e saldi i nervi,
come "benegrazie"
dopo comestai.
Alla gente non gli piace
di sapere che non servi niente,
se non possono ordinarti
perché non odiarti?
Il tuo caos
non fa al caso loro.
Alla gente non ci piace di sapere che stai male,
che non sei normale,
che non fai doni di natale,
che ridi del giornale,
che a volte
balli nudo
e non è carnevale,
alla gente non gli va
di sentire che sei stanco
della festa,
che hai solo mal di testa
e mal di branco
che qui non ti diverti
come nel blu della foresta,
che hai ricordi aperti
e aspettative fluide
sul tempo che ti resta,
che non possiedi gli altri
e non li uccidi per dimenticarli,
la gente non capisce la tempesta,
sospetta
di chi non porta rancore,
alla gente piace onore, raffreddore, per favore,
non gli piace chi li chiama scimmie, è un traditore
della razza,
non gli piace tremore, nomadismo, stupore,
non gli piace il mare aperto figurati l'amore,
sei pazzo, sei pazza.
Alla gente fa paura
la strada, le porte aperte
sul mondo
e senza serratura,
pensa con orrore
allo stato di natura,
se l'uomo è un lupo
per l'altro uomo
ben venga il Leviatano,
viva il sovrano a lungo,
e poi ne sorga un altro,
più scaltro, più sano,
che non sia umano
il Potere, che sia un motore
ronzante in sottofondo,
immobile e lontano.
La Frontex veglia in silenzio
affinché ognuno resti inchiodato
al pezzo dov'è nato.
Condannato in Africa o in Europa?
Nordovest o sudest?
La risposta non si sposta,
e non dice niente,
ma è tutto quel che conta
per la gente.
(Ma un giorno
o forse una sera,
nonostante Tritone
passerò la frontiera
del nostro Mare
e sarò intera,
e se mai potrò fare
o commettere un figlio,
gli canterò che il lupo
non è il cattivo,
e gli dirò da grande corri forte
senza padrone,
guardati intorno,
non serve un cacciatore che spara,
e parla spesso con la morte
ma soprattutto alle persone,
e giocati tutto e impara, l'uomo
non è il cattivo,
da grande, resta vivo.)
lunedì 17 novembre 2014
la parola 'genetlìaco'
è
onestamente
di una bruttezza letteraria, e forse è per questo
che oggi mi è venuta in mente spesso,
di una bruttezza letteraria, e forse è per questo
che oggi mi è venuta in mente spesso,
era
nell'aria.
quando, al genetliaco ventisei
quando, al genetliaco ventisei
non
sai chi sei
né che motivi hai
di scrivere la ventiseiesima lettera
della lettera
di motivazione,
forse qualcosa è andato storto,
né che motivi hai
di scrivere la ventiseiesima lettera
della lettera
di motivazione,
forse qualcosa è andato storto,
-
qualcos'altro,
oltre
alla nazione -
le lettere di emotività comunque
non sono ammesse,
figurati quelle
d'emozione.
- e le parole dove le hai messe? -
che poi sei avanti, ormai,
fai tutto da sola,
ti scrivi anche
le referenze, e poi te le leggi anche
da sola,
da sola ti parli stanotte
in seconda persona,
e tutto è così nobile
e pieno di senso!
le lettere di emotività comunque
non sono ammesse,
figurati quelle
d'emozione.
- e le parole dove le hai messe? -
che poi sei avanti, ormai,
fai tutto da sola,
ti scrivi anche
le referenze, e poi te le leggi anche
da sola,
da sola ti parli stanotte
in seconda persona,
e tutto è così nobile
e pieno di senso!
se
ci penso,
la parola genetliaco
ricorda celiaco, genitali e gentile,
e anche maniaco,
ma non è gentile.
nessuno sorride più molto
quando chiede quali siano
le mie intenzioni
le mie scuse,
mi spiano, pretendono
giustificazioni.
io rispondo
come per gli smart-phone:
non ne ho e non ne voglio.
piuttosto gli smarties.
piuttosto vendo rose, o rosa rosae.
piuttosto invecchio denso.
piuttosto non mi pento,
e se mi rompo
stavolta parto
- aller (c'est) simple.
la parola genetliaco
ricorda celiaco, genitali e gentile,
e anche maniaco,
ma non è gentile.
nessuno sorride più molto
quando chiede quali siano
le mie intenzioni
le mie scuse,
mi spiano, pretendono
giustificazioni.
io rispondo
come per gli smart-phone:
non ne ho e non ne voglio.
piuttosto gli smarties.
piuttosto vendo rose, o rosa rosae.
piuttosto invecchio denso.
piuttosto non mi pento,
e se mi rompo
stavolta parto
- aller (c'est) simple.
domenica 9 novembre 2014
in questa buona notte
[Dylan Thomas, 1914 - 1953]
Do not go gentle into that good night,
old age should burn and rave at close of day;
rage, rage against the dying of the light!
Though wise men at their end know dark is right,
because their words had forked no lightning they
do not go gentle into that good night!
Good men, the last wave by, crying how bright
their frail deeds might have danced in a green bay,
rage, rage against the dying of the light!
Wild men who caught and sang the sun in flight,
and learn, too late, they grieved it on its way,
do not go gentle into that good night!
Grave men, near death, who see with blinding sight,
blind eyes could blaze like meteors and be gay,
rage, rage against the dying of the light!
And you, my father, there on the sad height,
curse, bless me now with your fierce tears, I pray!
Do not go gentle into that good night!
Rage, rage against the dying of the light!
mercoledì 5 novembre 2014
t'as la touche manouche
"Oh mente mia
lascia che dica questo:
il moner manush risiede nel cuore
e lì lo devi cercare.
Perché stai vagando da un luogo all'altro?"
lascia che dica questo:
il moner manush risiede nel cuore
e lì lo devi cercare.
Perché stai vagando da un luogo all'altro?"
il futuro è mostro (domenica diciannove ottobre)
ho
smesso da un po'
di rispondere a Ulisse
perché non so cosa dirgli,
sono un'ingrata però
in tasca ho
una tour eiffel di vero ferro
ancora incartata, per lui.
ho smesso da un po' di portarti
giri soli
perché non so cosa dirti,
se bussarti alla tomba
se scoppiare una bomba
o parlarti di me,
son vigliacca però
nel sangue ho
undici anni di vero ferro
ancora incartati, per te.
ho smesso da un po'
di cercarti in collina
perché non so ritrovarti,
sono maldestra però
nel tempo ho
calendari di giorni
di vero ferro
in cui ti riperdo da capo.
ho smesso da un po'
di tranquillizzarmi il futuro,
di scriverti 'vado avanti',
papà, non c'è niente di puro
- io solo uno scherzo,
tu memorie distanti -
di rispondere a Ulisse
perché non so cosa dirgli,
sono un'ingrata però
in tasca ho
una tour eiffel di vero ferro
ancora incartata, per lui.
ho smesso da un po' di portarti
giri soli
perché non so cosa dirti,
se bussarti alla tomba
se scoppiare una bomba
o parlarti di me,
son vigliacca però
nel sangue ho
undici anni di vero ferro
ancora incartati, per te.
ho smesso da un po'
di cercarti in collina
perché non so ritrovarti,
sono maldestra però
nel tempo ho
calendari di giorni
di vero ferro
in cui ti riperdo da capo.
ho smesso da un po'
di tranquillizzarmi il futuro,
di scriverti 'vado avanti',
papà, non c'è niente di puro
- io solo uno scherzo,
tu memorie distanti -
sono
rotta però
in bocca ho
cv vomitati di vero ferro
ancora incrostati di me.
ho smesso da un po' di sperare
un qualche senso
e mi assolvo senza processo,
mi assolvo dai sogni slacciati,
mi assolvo dal prossimo inverno:
il futuro era nostro però
nel ventre ho
ottobri bianchi
di vero ferro,
il futurò è al passato
il futuro è morto
il futuro era mostro per me.
ma ho iniziato da un po' a inventare
geografie
perché ho bisogno di spazio,
sono in fuga però
nei piedi hovaganti entusiasmi
che non afferro
ancora vibranti di te.
nel mio dire che parto e che parto
lontano
c'è un dare la vita in potenza,
sopravvivo alla fine
sopravvivo all'assenza
et je reste sur mes gardes,
sono inadatta però
nei pugni ho
una lotta profonda
di vero ferro,
e un pirata esce in mare
in bocca ho
cv vomitati di vero ferro
ancora incrostati di me.
ho smesso da un po' di sperare
un qualche senso
e mi assolvo senza processo,
mi assolvo dai sogni slacciati,
mi assolvo dal prossimo inverno:
il futuro era nostro però
nel ventre ho
ottobri bianchi
di vero ferro,
il futurò è al passato
il futuro è morto
il futuro era mostro per me.
ma ho iniziato da un po' a inventare
geografie
perché ho bisogno di spazio,
sono in fuga però
nei piedi hovaganti entusiasmi
che non afferro
ancora vibranti di te.
nel mio dire che parto e che parto
lontano
c'è un dare la vita in potenza,
sopravvivo alla fine
sopravvivo all'assenza
et je reste sur mes gardes,
sono inadatta però
nei pugni ho
una lotta profonda
di vero ferro,
e un pirata esce in mare
con
me.
domenica 7 settembre 2014
p hier
è qui, tra un biglietto scaduto e uno inutile,
per un treno perso,
qui, tra le poesie
del vecchio Moreno bianco,
è per la bellezza
di sua figlia congelata,
per la carta d'identità,
è qui, tra il punk e la bestia,
è Vento malato
nella pineta di Cecina
o lungo la Jordanne,
qui arriva Pierre a 19 anni,
nero e fragile petit Pierre occhi grandi,
ha un nome biblico e ha lasciato in bilico
le cose belle
in uno squat di Marsiglia,
a Aurillac c'era casa, ma trova caso
e fantasmi da raccontare,
questo ero io che andavo a scuola, petit Pierre,
questo ero io quando la maestra,
questo ero io fermo zitto in piedi in cortile per un'ora,
in punizione,
questo ero io
quando cadevo dalla finestra
questa è una sciarpa
bianca
per quando ho freddo,
se la perdo mi ritrova,
l'ha cucita mia sorella.
E io
che senza sciarpe bianche
ancora non son stata
ritrovata,
ma faccio troppe domande
sul circo delle pulci
e le magie che non ho imparato,
forse la prossima volta che mi abbandoni
resto in autogrill.
per un treno perso,
qui, tra le poesie
del vecchio Moreno bianco,
è per la bellezza
di sua figlia congelata,
per la carta d'identità,
è qui, tra il punk e la bestia,
è Vento malato
nella pineta di Cecina
o lungo la Jordanne,
qui arriva Pierre a 19 anni,
nero e fragile petit Pierre occhi grandi,
ha un nome biblico e ha lasciato in bilico
le cose belle
in uno squat di Marsiglia,
a Aurillac c'era casa, ma trova caso
e fantasmi da raccontare,
questo ero io che andavo a scuola, petit Pierre,
questo ero io quando la maestra,
questo ero io fermo zitto in piedi in cortile per un'ora,
in punizione,
questo ero io
quando cadevo dalla finestra
questa è una sciarpa
bianca
per quando ho freddo,
se la perdo mi ritrova,
l'ha cucita mia sorella.
E io
che senza sciarpe bianche
ancora non son stata
ritrovata,
ma faccio troppe domande
sul circo delle pulci
e le magie che non ho imparato,
forse la prossima volta che mi abbandoni
resto in autogrill.
martedì 5 agosto 2014
martedì 29 luglio 2014
versi extra
alla fine g. cede, striscia fino all'extraverso, lo spalanca con un gesto brusco e lui la illumina prevedibile, placido.
non è una notte buona.
g. ha il respiro strano, questo rumore che le vibra acuto e ostinato nei timpani, e troppe memorie sfilacciate negli occhi chiusi, aperti, chiusi, aperti, confusi.
deve spegnersi la testa, ma non riesce o forse non vuole. non ha dosi disponibili di nessuna droga illegale, solo diverse droghe legali che però le fanno tristezza in quanto tali. pensa a possibili uscite di scena che le risparmierebbero l'impotenza del prossimo giorno. forse g. vuole accendersi la testa, bruciarla come una fiaccola, sventolarla nel buio solo ipotetico della notte urbana.
meglio non trasmettere, in queste condizioni.
la luce dell'extraverso è ipnotica e consolante, forse non c'è neanche bisogno di trasmettere, g. aspetta vagamente un rompi-bianco che non verrà. si cancella nell'attesa.
l'extraverso fa un rumore simile a quello che g. ha nei timpani, un ronzio, uno scorrere d'acqua inesistente, o di tempo. Sembra un tentativo di comunicazione, g. chiude gli occhi.
neanche così è buio.
"il vuoto", dice g.
- tutto questo tempo vuoto. Non lo sopporto, non so cose farmene, mi rende triste da morire. Ma non è il tempo, siamo noi. Siamo vuoti, non lo vedi? Poco più che specchi. Quando non c'è niente, riflettiamo niente, siamo niente. Siamo contestuali, sono sempre le condizioni al contorno che ci muovono: ci pompano, ci gonfiano, ci danno intelligenza, parole e gesti e poi...non avrei voluto vedere questo, g, vederti così, come un patetico specchio vuoto. Come me. Non ci vedi? Cosa facciamo se non gesti ricalcati dai nostri morti. Le mani sui fianchi erano tuo padre, le mie dietro la schiena erano qualcun altro. Sequenze di azioni percorse e ripercorse fino al limite dello scomparirci dentro: i nostri atti quotidiani assomigliano a zombie, i nostri atti più naturali sono semi-cadaveri scampati alle nostre precedenti piccole morti. Per non parlare delle parole. Ci siamo condannati a ripetere sempre le stesse, come un canovaccio. Sinonimi e contrari incontrati in coriaceo rivorticare, rievocare echi per diffondere a banda larga le nostre ossessioni, i nostri tic. Zecche semantiche ci succhiano il sangue. Ed è tutto un tritare, un tirare, un rimestare di sillabe. E giù a ruminare romamor, gli anagrammi per trovare i sensi, gli anni a grammi passati davvero ma palindromi solo per finta. Siamo i nostri tic, g., le nostre cit. ci sintetizzano. La riduzione non lascia scampo, basta viversi addosso qualche centinaio di ore per operarla. Piccole vite che girano in tondo. Ho iniziato a ridurti, a ridurci, e tem(p)o sia irreversibile-
le droghe legali e illegali ostacolano la riduzione. Frammentano il vuoto, alterano lo specchio. Distraggono dalla distruzione. Sono come un potentissimo meta-contesto: ti danno sempre qualcosa da riflettere. Ecco perché sono vitali per quasi tutti.
come l'extraverso, che per ora si può annoverare tra le droghe legali.
perché rompere il bianco dà l'illusione di riempire il vuoto.
rompere il bianco dà l'illusione di riempire il vuoto.
rompere il bianco dà l'illusione di riempire il vuoto.
l'illusione rompe il bianco di riempire il vuoto.
il bianco illude il riempimento di vuotare la frattura.
il pieno svuota la frattura di riempire l'illusione.
e poi il vuoto rompe l'illusione.
non è una notte buona.
g. ha il respiro strano, questo rumore che le vibra acuto e ostinato nei timpani, e troppe memorie sfilacciate negli occhi chiusi, aperti, chiusi, aperti, confusi.
deve spegnersi la testa, ma non riesce o forse non vuole. non ha dosi disponibili di nessuna droga illegale, solo diverse droghe legali che però le fanno tristezza in quanto tali. pensa a possibili uscite di scena che le risparmierebbero l'impotenza del prossimo giorno. forse g. vuole accendersi la testa, bruciarla come una fiaccola, sventolarla nel buio solo ipotetico della notte urbana.
meglio non trasmettere, in queste condizioni.
la luce dell'extraverso è ipnotica e consolante, forse non c'è neanche bisogno di trasmettere, g. aspetta vagamente un rompi-bianco che non verrà. si cancella nell'attesa.
l'extraverso fa un rumore simile a quello che g. ha nei timpani, un ronzio, uno scorrere d'acqua inesistente, o di tempo. Sembra un tentativo di comunicazione, g. chiude gli occhi.
neanche così è buio.
"il vuoto", dice g.
- tutto questo tempo vuoto. Non lo sopporto, non so cose farmene, mi rende triste da morire. Ma non è il tempo, siamo noi. Siamo vuoti, non lo vedi? Poco più che specchi. Quando non c'è niente, riflettiamo niente, siamo niente. Siamo contestuali, sono sempre le condizioni al contorno che ci muovono: ci pompano, ci gonfiano, ci danno intelligenza, parole e gesti e poi...non avrei voluto vedere questo, g, vederti così, come un patetico specchio vuoto. Come me. Non ci vedi? Cosa facciamo se non gesti ricalcati dai nostri morti. Le mani sui fianchi erano tuo padre, le mie dietro la schiena erano qualcun altro. Sequenze di azioni percorse e ripercorse fino al limite dello scomparirci dentro: i nostri atti quotidiani assomigliano a zombie, i nostri atti più naturali sono semi-cadaveri scampati alle nostre precedenti piccole morti. Per non parlare delle parole. Ci siamo condannati a ripetere sempre le stesse, come un canovaccio. Sinonimi e contrari incontrati in coriaceo rivorticare, rievocare echi per diffondere a banda larga le nostre ossessioni, i nostri tic. Zecche semantiche ci succhiano il sangue. Ed è tutto un tritare, un tirare, un rimestare di sillabe. E giù a ruminare romamor, gli anagrammi per trovare i sensi, gli anni a grammi passati davvero ma palindromi solo per finta. Siamo i nostri tic, g., le nostre cit. ci sintetizzano. La riduzione non lascia scampo, basta viversi addosso qualche centinaio di ore per operarla. Piccole vite che girano in tondo. Ho iniziato a ridurti, a ridurci, e tem(p)o sia irreversibile-
le droghe legali e illegali ostacolano la riduzione. Frammentano il vuoto, alterano lo specchio. Distraggono dalla distruzione. Sono come un potentissimo meta-contesto: ti danno sempre qualcosa da riflettere. Ecco perché sono vitali per quasi tutti.
come l'extraverso, che per ora si può annoverare tra le droghe legali.
perché rompere il bianco dà l'illusione di riempire il vuoto.
rompere il bianco dà l'illusione di riempire il vuoto.
rompere il bianco dà l'illusione di riempire il vuoto.
l'illusione rompe il bianco di riempire il vuoto.
il bianco illude il riempimento di vuotare la frattura.
il pieno svuota la frattura di riempire l'illusione.
e poi il vuoto rompe l'illusione.
lunedì 30 giugno 2014
namenlosen
Ed è in un piccolo
vicolo oscuro,
una piccola notte,
è una piccola sorte
il rumore
dei piedi scalzi senza rumore
che scivolano il vicolo
e trovano te.
Eh, lo so, amore,
è tutto ridicolo.
Soprattutto l'amore.
Soprattutto le ore iene
in cui non ho pianto,
e pensavo di aver perso le vene
col sangue
e il brillore.
Dicevo "aggrappati"
e crollavo io,
i gesti non tenevano,
le parole pronunciate
si scioglievano nell'aria liquide
come aranciate.
Ma poi
il vicolo, la notte, i piedi scalzi
e i tuoi occhi nudi sui miei.
Ho pianto, e ti ho messo
il mio tremore nelle mani,
e poi anche ricordi strani,
il cimitero dei nomi persi,
i pensieri più tersi
e i biscotti al cioccolato,
e i biscotti al futuro
mancato.
Un altro po' di vita, rimanemmo così.
Da una finestra aperta arrivava
una voce ferita,
non umana, come un lamento di cane.
"Lo senti?", mi hai chiesto. "E' un cucciolo".
"Sì che lo sento. Perché piange?"
"Non piange. Ulula."
E io ululavo anch'io,
piangevo come un lamento di cane,
come un bambino
quando rivede la mamma,
le mette il suo tremore nelle mani,
le chiede di dare un senso
alle cose, ai giochi, ai giorni,
chiede un nome per il vuoto
per lo schianto dei nomi persi.
Questo ti chiedevo
nel piccolo vicolo,
e forse mi fosti madre,
mentre ti tenevo.
vicolo oscuro,
una piccola notte,
è una piccola sorte
il rumore
dei piedi scalzi senza rumore
che scivolano il vicolo
e trovano te.
Eh, lo so, amore,
è tutto ridicolo.
Soprattutto l'amore.
Soprattutto le ore iene
in cui non ho pianto,
e pensavo di aver perso le vene
col sangue
e il brillore.
Dicevo "aggrappati"
e crollavo io,
i gesti non tenevano,
le parole pronunciate
si scioglievano nell'aria liquide
come aranciate.
Ma poi
il vicolo, la notte, i piedi scalzi
e i tuoi occhi nudi sui miei.
Ho pianto, e ti ho messo
il mio tremore nelle mani,
e poi anche ricordi strani,
il cimitero dei nomi persi,
i pensieri più tersi
e i biscotti al cioccolato,
e i biscotti al futuro
mancato.
Un altro po' di vita, rimanemmo così.
Da una finestra aperta arrivava
una voce ferita,
non umana, come un lamento di cane.
"Lo senti?", mi hai chiesto. "E' un cucciolo".
"Sì che lo sento. Perché piange?"
"Non piange. Ulula."
E io ululavo anch'io,
piangevo come un lamento di cane,
come un bambino
quando rivede la mamma,
le mette il suo tremore nelle mani,
le chiede di dare un senso
alle cose, ai giochi, ai giorni,
chiede un nome per il vuoto
per lo schianto dei nomi persi.
Questo ti chiedevo
nel piccolo vicolo,
e forse mi fosti madre,
mentre ti tenevo.
lunedì 9 giugno 2014
plagio
Ho sognato che trovavo una poesia fulminante,
tipo milluminodimmenso.
Nel sogno non la scrivevo io, la leggevo e basta,
e rosicavo,
al risveglio ero felice: era mia,
di una mia creatura notturna, quindi mia,
insomma, era fatta, era un plagio legale!!!
Quasi morale.
Ma ho dimenticato prima
di arrivare alla penna.
Ho salvato dal buio poche parole:
"non si può",
"e allora noi",
non doveva esser molto più lunga.
Allora tento:
'Se si può salvare un solo frammento,
vi prego, che sia questo.
Ma non si può.
E allora noi
persino noi un giorno
spariremo negli angoli,
ridiventeremo solo
gli altri.'
mercoledì 4 giugno 2014
Anna
Qui tutti muoino dalla voglia di ammazzarsi,
che questo stramaledetto coperchio, sopra,
sbarra la strada alle fantasie.
ma dove vuoi andare, con un cielo così.
basso che ci picchi la testa finché campi, e il problema è che campi.
il problema del tempo è che passa, sì, ma anche che poi ce n'è sempre dell'altro.
passa e ce n'è dell'altro, passa anche questo, ma niente da fare,
ce n'è ancora dell'altro, e ancora. così finché campi,
io di ricordi ne ho piene le fosse comuni, e di lettere.
io invento lingue che poi disimparo a forza di cambiare le parole che sarei.
e tutti che muoiono dalla voglia,
ma non lo fanno, tutta la vita a morire dalla voglia.
si fanno cose che non importano mai, di loro.
portano ad altre cose, che ugualmente, di per sè, non importano mai.
e così, e così, si fa tutto come si fa il ponte...
le cose che sembrano giuste, le cose che potrebbero importare,
non si fanno o si perdono. si muore dalla voglia e basta.
parlo per tutti, eppure per me.
arrogante, trascino la specie nelle mie colpe,
nelle miserie solo mie.
il Rosso lui sì era un gran tipo,
che ha telefonato a sé stesso nel futuro e poi si è spento il cervello.
si è fatto saltare il cervello, finalmente ha fermato i vermosi pensieri.
gli ci è voluta la Corea e compagnia bella, certo, ma poi.
gli ci è voluta la normalità stronza del mondo civile, dopo. ma poi.
io lo so che gli si è sfracellata la chioma,
so tutto delle ciocche rosse per terra e dei capelli volati in aria,
in cielo fino alle stelle.
Adesso però è incazzato come pochi, senza scherzi.
C'è una donna che non l'ha amato e pensa di sì che lo cerca,
si rifà il trucco da gran vacca e lo cerca, si mette il rossetto e lo cerca,
scavalca di notte i cimiteri e lo chiama perché qualcuno possa farne un best seller.
Odiava tutto della sua anormalità, per fortuna non sa
quanto sia sola adesso.
Il mio Leslie invece se ne va in Vietnam o ancora in Corea, va nello stesso posto
di tutti i fratelli, di tutti i padri andati,
mi lascerà i suoi guanti, che il vecchio Henry si è ammazzato.
Leslie mi toglie tutto.
Il mio Leslie va a morire, a diventare un uomo con tutte le storie,
quando tornerà sarà come gli altri, non sentirà più niente,
dimenticherà tutte le lingue tranne il common - what a mess! where are my boots? -
e urlerà di notte con la stessa voce di tutti quelli che vanno,
di tutti quelli che tornano.
non più come quella notte che eravamo piccoli e incastrati, tutti e tre, attorcigliati nel letto,
eravamo bambini e aggrappati, con il rifugio segreto in fondo al letto,
sapevamo già tutto, ma poi al mattino
come tutti
non c'eravamo più.
e io lo so, è questo il momento di cominciare, oppure mai.
ora che è l'alba, oppure mai.
questo il momento di farsi portare,
di farsi importare lontano per sempre,
senza nessuna preparazione, tutto a caso,
ma forse a casa, un giorno. chi lo sa.
questa mica è una casa. dovevi spaccare le finestre,
trascinarmi fuori di qui,
bello straniero,
tra le strade lontane di New York,
la Quinta, la Quarantaduesima, i quartieri proibiti, i sotterranei dei bar,
dovevi darmi altre ragioni e altri gesti, prima che tutto crollasse
nello struggimento dell'attesa.
lo struggimento dell'attesa dietro il vetro,
con la fronte appoggiata alla finestra che dà sul vicolo cieco.
altre finestre, dietro il vetro, e il vicolo ci vede benissimo e ride di noi,
che abbiam fatto ammazzare tutti i nostri figli come fogli di carta.
so che questo è il momento, per me, e mentre lo so non è più.
non ti vedo più, amico invisibile, chi lo sa, sarò invecchiata.
nessuno prende nessuno in nessun campo di segale,
credo di aver sognato tutto, Ma e Al ballano al cimitero allagato,
ballano nelle pozzanghere
e non mi vedono più.
Han perso tutti i loro figli, adesso. Bel colpo.
E io che non posso niente
canto a caso, son qui a caso, come appoggiata, tutto a caso,
ho un nome breve e musicale, ho un nome palindromo
che mi hanno dato e dimenticato in un momento
e non ho l'aria di niente.
Così sembra che non abbia più desideri e tutto il resto, lo so.
Sembra che sia solo la vecchia Anna, ancora più depressa e alienata del solito.
La vecchia Anna alla finestra, con la sua aria vaga, sognante,
con le filastrocche e i giri di danza.
Così pensano, Ma e Al, ma nemmeno, nemmeno mi pensano più.
Nemmeno loro che alla fine mi han confezionata.
Tanto vaga e inconsistente l'ho confezionata, io, l'idea di me.
Ma il fatto è che i maledetti desideri ce li ho ancora, invece.
Mica te li togli dai piedi, quelli.
Come i vermosi pensieri, ma il fatto è che per me
non ci sono pistole né guerre per la mia aria vaga.
Una volta uscivo di notte, tutte le notti.
Leslie usciva e girava tutta la notte per New York, con la sua aria da attore a difenderlo,
e i suoi guanti.
Io senza aria da attore, ma uscivo anch'io.
Indifesa, cercavo lupi. Cercavo stranieri con gli stivali, i capelli lunghi e la camicia un po' aperta.
Ma non li trovavo, c'erano solo uomini con gesti decisi, con sguardi da uomini, con storie da uomini,
uomini dal portamento guerresco e ricordi pieni di partite di football
e vecchie rabbie, storie da sistemare.
Li vedevo sull'attenti, pronti a risalire in un colpo solo
secoli di intelligenza,
al primo ordine urlato nelle loro orecchie.
Facevano cose che di per sè non importavano, pagavano alcool
in attesa di andare in Corea o in Vietnam come tutti,
o a letto con qualcuno,
o in attesa di tornare e compagnia bella.
Avevano o non avevano i capelli rasati,
si carezzavano la testa perplessi quando non parlavano,
e Cristo, bastava questo,
una bellezza che voi che non l'avete vista non capirete mai.
Insomma, mi innamoravo delle loro dita lente,
di questa perplessità che era l'unica cosa vera,
scivolavo nei loro occhi sospesi.
Li guardavo e basta, in tutti i sotterranei di tutti i bar, e mi riempivano il bicchiere,
e riempivano la mia aria vaga di brutto whisky,
e riempivano la mia aria sognante di sogni erotici buoni a rimandare la morte di cinque minuti.
Una volta il vecchio Leslie era nel mio stesso bar, nel mio stesso sotterraneo,
ma tra una recita e l'altra aveva la sua aria grave al bancone,
e non mi ha riconosciuto.
Mi facevo toccare da un'altro e pensavo al suo modo di tremare nel sonno, d'inverno.
Ad un tratto scomparivo da tutte quelle mani,
da tutte quelle labbra e riapparivo nel mio letto.
E non so se tutte queste notti fossero reali,
o solo luci nella mia testa, non ne so niente,
forse alla fine non importa,
se i fratelli e i padri vanno e tornano uguali a tutti quelli che tornano,
se la madri si scuciono, se tutti
muoino dalla voglia di ammazzarsi.
Ora il Rosso fa i capricci peggio che da bambino,
vorrebbe che fossimo tutti vivi ma non può,
non sa più cosa dire e trema quando sente
gridare i gabbiani.
Da me non viene mai,
ma mi scrive ancora lettere, ogni tanto.
Scrive risultati di strambi calcoli,
e risultati senza sistema di calcolo,
ma tutti pessimi,
e che voleva vivere per strada,
tra i barboni, scrive che era fatto per i margini,
e non per questi stronzi salotti con le tende.
Io lo sapevo già, e mi viene da piangere.
Il vecchio Leslie affoga nelle lacrime automatiche,
nelle lacrime secche degli altri.
Il mio piccolo amore mi lascia sola con i vecchi.
Il vecchio Leslie l'ho perso con tutte le parole,
lo tengo ancora abbracciato, mi rannicchio ancora
intorno alle sue caviglie,
ma se ne andrà lo stesso nella jungla,
lui mi guarda e basta, pallido, mi guarda attraverso,
me ne sto qui senza ragione solo perché non ho il coraggio.
Non ho il Vietnam.
Non ho la fuga.
Non ho la pistola.
Non ho il whisky.
Non ho arie drammatiche.
Non ho la vanità e tutto il resto.
E' difficile da credere, ma non ho nemmno una professione,
né un mestiere, no, niente,
ma è perché sono capitata qui per sbaglio,
e quando si è così si ha la data di scadenza.
La mia è passata.
Non sono riuscita a staccarmi da terra, ma con un cielo così,
ma dove vuoi andare.
che questo stramaledetto coperchio, sopra,
sbarra la strada alle fantasie.
ma dove vuoi andare, con un cielo così.
basso che ci picchi la testa finché campi, e il problema è che campi.
il problema del tempo è che passa, sì, ma anche che poi ce n'è sempre dell'altro.
passa e ce n'è dell'altro, passa anche questo, ma niente da fare,
ce n'è ancora dell'altro, e ancora. così finché campi,
io di ricordi ne ho piene le fosse comuni, e di lettere.
io invento lingue che poi disimparo a forza di cambiare le parole che sarei.
e tutti che muoiono dalla voglia,
ma non lo fanno, tutta la vita a morire dalla voglia.
si fanno cose che non importano mai, di loro.
portano ad altre cose, che ugualmente, di per sè, non importano mai.
e così, e così, si fa tutto come si fa il ponte...
le cose che sembrano giuste, le cose che potrebbero importare,
non si fanno o si perdono. si muore dalla voglia e basta.
parlo per tutti, eppure per me.
arrogante, trascino la specie nelle mie colpe,
nelle miserie solo mie.
il Rosso lui sì era un gran tipo,
che ha telefonato a sé stesso nel futuro e poi si è spento il cervello.
si è fatto saltare il cervello, finalmente ha fermato i vermosi pensieri.
gli ci è voluta la Corea e compagnia bella, certo, ma poi.
gli ci è voluta la normalità stronza del mondo civile, dopo. ma poi.
io lo so che gli si è sfracellata la chioma,
so tutto delle ciocche rosse per terra e dei capelli volati in aria,
in cielo fino alle stelle.
Adesso però è incazzato come pochi, senza scherzi.
C'è una donna che non l'ha amato e pensa di sì che lo cerca,
si rifà il trucco da gran vacca e lo cerca, si mette il rossetto e lo cerca,
scavalca di notte i cimiteri e lo chiama perché qualcuno possa farne un best seller.
Odiava tutto della sua anormalità, per fortuna non sa
quanto sia sola adesso.
Il mio Leslie invece se ne va in Vietnam o ancora in Corea, va nello stesso posto
di tutti i fratelli, di tutti i padri andati,
mi lascerà i suoi guanti, che il vecchio Henry si è ammazzato.
Leslie mi toglie tutto.
Il mio Leslie va a morire, a diventare un uomo con tutte le storie,
quando tornerà sarà come gli altri, non sentirà più niente,
dimenticherà tutte le lingue tranne il common - what a mess! where are my boots? -
e urlerà di notte con la stessa voce di tutti quelli che vanno,
di tutti quelli che tornano.
non più come quella notte che eravamo piccoli e incastrati, tutti e tre, attorcigliati nel letto,
eravamo bambini e aggrappati, con il rifugio segreto in fondo al letto,
sapevamo già tutto, ma poi al mattino
come tutti
non c'eravamo più.
e io lo so, è questo il momento di cominciare, oppure mai.
ora che è l'alba, oppure mai.
questo il momento di farsi portare,
di farsi importare lontano per sempre,
senza nessuna preparazione, tutto a caso,
ma forse a casa, un giorno. chi lo sa.
questa mica è una casa. dovevi spaccare le finestre,
trascinarmi fuori di qui,
bello straniero,
tra le strade lontane di New York,
la Quinta, la Quarantaduesima, i quartieri proibiti, i sotterranei dei bar,
dovevi darmi altre ragioni e altri gesti, prima che tutto crollasse
nello struggimento dell'attesa.
lo struggimento dell'attesa dietro il vetro,
con la fronte appoggiata alla finestra che dà sul vicolo cieco.
altre finestre, dietro il vetro, e il vicolo ci vede benissimo e ride di noi,
che abbiam fatto ammazzare tutti i nostri figli come fogli di carta.
so che questo è il momento, per me, e mentre lo so non è più.
non ti vedo più, amico invisibile, chi lo sa, sarò invecchiata.
nessuno prende nessuno in nessun campo di segale,
credo di aver sognato tutto, Ma e Al ballano al cimitero allagato,
ballano nelle pozzanghere
e non mi vedono più.
Han perso tutti i loro figli, adesso. Bel colpo.
E io che non posso niente
canto a caso, son qui a caso, come appoggiata, tutto a caso,
ho un nome breve e musicale, ho un nome palindromo
che mi hanno dato e dimenticato in un momento
e non ho l'aria di niente.
Così sembra che non abbia più desideri e tutto il resto, lo so.
Sembra che sia solo la vecchia Anna, ancora più depressa e alienata del solito.
La vecchia Anna alla finestra, con la sua aria vaga, sognante,
con le filastrocche e i giri di danza.
Così pensano, Ma e Al, ma nemmeno, nemmeno mi pensano più.
Nemmeno loro che alla fine mi han confezionata.
Tanto vaga e inconsistente l'ho confezionata, io, l'idea di me.
Ma il fatto è che i maledetti desideri ce li ho ancora, invece.
Mica te li togli dai piedi, quelli.
Come i vermosi pensieri, ma il fatto è che per me
non ci sono pistole né guerre per la mia aria vaga.
Una volta uscivo di notte, tutte le notti.
Leslie usciva e girava tutta la notte per New York, con la sua aria da attore a difenderlo,
e i suoi guanti.
Io senza aria da attore, ma uscivo anch'io.
Indifesa, cercavo lupi. Cercavo stranieri con gli stivali, i capelli lunghi e la camicia un po' aperta.
Ma non li trovavo, c'erano solo uomini con gesti decisi, con sguardi da uomini, con storie da uomini,
uomini dal portamento guerresco e ricordi pieni di partite di football
e vecchie rabbie, storie da sistemare.
Li vedevo sull'attenti, pronti a risalire in un colpo solo
secoli di intelligenza,
al primo ordine urlato nelle loro orecchie.
Facevano cose che di per sè non importavano, pagavano alcool
in attesa di andare in Corea o in Vietnam come tutti,
o a letto con qualcuno,
o in attesa di tornare e compagnia bella.
Avevano o non avevano i capelli rasati,
si carezzavano la testa perplessi quando non parlavano,
e Cristo, bastava questo,
una bellezza che voi che non l'avete vista non capirete mai.
Insomma, mi innamoravo delle loro dita lente,
di questa perplessità che era l'unica cosa vera,
scivolavo nei loro occhi sospesi.
Li guardavo e basta, in tutti i sotterranei di tutti i bar, e mi riempivano il bicchiere,
e riempivano la mia aria vaga di brutto whisky,
e riempivano la mia aria sognante di sogni erotici buoni a rimandare la morte di cinque minuti.
Una volta il vecchio Leslie era nel mio stesso bar, nel mio stesso sotterraneo,
ma tra una recita e l'altra aveva la sua aria grave al bancone,
e non mi ha riconosciuto.
Mi facevo toccare da un'altro e pensavo al suo modo di tremare nel sonno, d'inverno.
Ad un tratto scomparivo da tutte quelle mani,
da tutte quelle labbra e riapparivo nel mio letto.
E non so se tutte queste notti fossero reali,
o solo luci nella mia testa, non ne so niente,
forse alla fine non importa,
se i fratelli e i padri vanno e tornano uguali a tutti quelli che tornano,
se la madri si scuciono, se tutti
muoino dalla voglia di ammazzarsi.
Ora il Rosso fa i capricci peggio che da bambino,
vorrebbe che fossimo tutti vivi ma non può,
non sa più cosa dire e trema quando sente
gridare i gabbiani.
Da me non viene mai,
ma mi scrive ancora lettere, ogni tanto.
Scrive risultati di strambi calcoli,
e risultati senza sistema di calcolo,
ma tutti pessimi,
e che voleva vivere per strada,
tra i barboni, scrive che era fatto per i margini,
e non per questi stronzi salotti con le tende.
Io lo sapevo già, e mi viene da piangere.
Il vecchio Leslie affoga nelle lacrime automatiche,
nelle lacrime secche degli altri.
Il mio piccolo amore mi lascia sola con i vecchi.
Il vecchio Leslie l'ho perso con tutte le parole,
lo tengo ancora abbracciato, mi rannicchio ancora
intorno alle sue caviglie,
ma se ne andrà lo stesso nella jungla,
lui mi guarda e basta, pallido, mi guarda attraverso,
me ne sto qui senza ragione solo perché non ho il coraggio.
Non ho il Vietnam.
Non ho la fuga.
Non ho la pistola.
Non ho il whisky.
Non ho arie drammatiche.
Non ho la vanità e tutto il resto.
E' difficile da credere, ma non ho nemmno una professione,
né un mestiere, no, niente,
ma è perché sono capitata qui per sbaglio,
e quando si è così si ha la data di scadenza.
La mia è passata.
Non sono riuscita a staccarmi da terra, ma con un cielo così,
ma dove vuoi andare.
venerdì 2 maggio 2014
l'Isola che non c'è non c'è
L’Isola che non c’è non c’è
no non c’è
non c’è spazio
per l’inquietudine di fondo
per il fondo gentile del fondo degli occhi
no,
la cosmogonia è andata, e le città invivibili
restano,
invisibili
come donne che non si sono
potute scrivere,
non c’è luogo
non c’è deviazione
da strade e maestri
da cortili da pulire
o da negre rabbie ridicole,
non c’è respiro per la tromba
o per le note ultraveloci, c’è
la ragnatela malevola,
penzola
dalle buone intenzioni,
non
dalle buone intuizioni,
sono in apartheid,
come gli estremi patologici,
ci sono le ferite
e la fatica che non è
fama, né gloria, l’inferno
resta lì,
sotto il tavolino
nel locale fumoso,
e quei quattro cani che ti ascoltano mica
cambiano le cose, non c’è
un altro personaggio, per te,
o pensieri che fanno girare gli altri, la vita
corre e viene come viene, e va,
non c’è un gioco che resista
allo schianto di dirsi adulti,
di essere detti adulti
di essere fucilati adulti,
battersi è vano, e invano, che
non è più bello battersi
quando è vano,
non c’è uno spazio e c’è un vuoto,
nessuno al volante
sulla strada del tuono,
non c’è un temporale
e fa male
ma il vestito di Mary
non ondeggia e non c’è bellezza
nessuna terra da scoprire
è tardi e no,
non possiamo più farcela,
la chitarra non parla più, sono finite
le eccezioni, e il ridicolo
di scrivere poesie
può ucciderti se non sai scrivere
non puoi scrivere
non scrivere, sono finite
le parole, finite male
e i detriti sono troppi perché
l’acqua scorra, niente corre,
non c’è spazio, nelle vastità
dello spazio, nelle galassie
non c’è spazio e nemmeno nei corpi,
non c’è apertura di fiume
per il cadere di Narciso,
ci sono tubi dritti e stretti e portano
davanti al Nemico,
qualcosa, o tutto
di quel che abbiamo detto
ora è errato,
resteremo indietro, indietro
dove non c'è spazio per stare
o per andare
o per tornare o per gridare
e non c'è mare
che non renda stanchi,
resteremo col grugno
infilato in una maschera
per vent'anni e altri venti
che non c'è tana per scoprire
uno stupore o un pianto, un tremore,
rivoluzioni troppo piccole,
non c'è spazio per spostarsi,
rifiuta la tua pelle
addormenta i tuoi sensi
muori la vita, muori,
che non c'è un luogo di corpo
né di onestà,
il sangue resta chiuso
dentro
le vene, le armi
porte come mani
prima delle mani, le lame
per dividere, per velare.
le porte sono chiuse
e la sconfitta è totale.
Abbiam mancato il dono, nessuno
non c'era nessuno da incontrare.
no non c’è
non c’è spazio
per l’inquietudine di fondo
per il fondo gentile del fondo degli occhi
no,
la cosmogonia è andata, e le città invivibili
restano,
invisibili
come donne che non si sono
potute scrivere,
non c’è luogo
non c’è deviazione
da strade e maestri
da cortili da pulire
o da negre rabbie ridicole,
non c’è respiro per la tromba
o per le note ultraveloci, c’è
la ragnatela malevola,
penzola
dalle buone intenzioni,
non
dalle buone intuizioni,
sono in apartheid,
come gli estremi patologici,
ci sono le ferite
e la fatica che non è
fama, né gloria, l’inferno
resta lì,
sotto il tavolino
nel locale fumoso,
e quei quattro cani che ti ascoltano mica
cambiano le cose, non c’è
un altro personaggio, per te,
o pensieri che fanno girare gli altri, la vita
corre e viene come viene, e va,
non c’è un gioco che resista
allo schianto di dirsi adulti,
di essere detti adulti
di essere fucilati adulti,
battersi è vano, e invano, che
non è più bello battersi
quando è vano,
non c’è uno spazio e c’è un vuoto,
nessuno al volante
sulla strada del tuono,
non c’è un temporale
e fa male
ma il vestito di Mary
non ondeggia e non c’è bellezza
nessuna terra da scoprire
è tardi e no,
non possiamo più farcela,
la chitarra non parla più, sono finite
le eccezioni, e il ridicolo
di scrivere poesie
può ucciderti se non sai scrivere
non puoi scrivere
non scrivere, sono finite
le parole, finite male
e i detriti sono troppi perché
l’acqua scorra, niente corre,
non c’è spazio, nelle vastità
dello spazio, nelle galassie
non c’è spazio e nemmeno nei corpi,
non c’è apertura di fiume
per il cadere di Narciso,
ci sono tubi dritti e stretti e portano
davanti al Nemico,
qualcosa, o tutto
di quel che abbiamo detto
ora è errato,
resteremo indietro, indietro
dove non c'è spazio per stare
o per andare
o per tornare o per gridare
e non c'è mare
che non renda stanchi,
resteremo col grugno
infilato in una maschera
per vent'anni e altri venti
che non c'è tana per scoprire
uno stupore o un pianto, un tremore,
rivoluzioni troppo piccole,
non c'è spazio per spostarsi,
rifiuta la tua pelle
addormenta i tuoi sensi
muori la vita, muori,
che non c'è un luogo di corpo
né di onestà,
il sangue resta chiuso
dentro
le vene, le armi
porte come mani
prima delle mani, le lame
per dividere, per velare.
le porte sono chiuse
e la sconfitta è totale.
Abbiam mancato il dono, nessuno
non c'era nessuno da incontrare.
giovedì 13 marzo 2014
rilevazioni
la stanchezza dà allucinazioni uditive,
stacca il mondo come un chiodo.
cado.
non trovo rifugio.
il ripetersi delle notti e dei giorni,
il ripetersi, e ancora,
uguale, dio ancora lo stesso giorno, no,
non mi aggrappo.
faccio, faccio disperatamente faccio,
mi faccio di futuro in endovena
e le occhiaie poco erotiche di eroina,
che il problema è il tempo,
io non vedo più
lo scorrere del tempo verso dove.
ti amo, ti amo, ti amo
o forse solo ti chiamo dove sei,
pronto, ma a che cosa, pronto, ma come si fa,
forse solo ti chiamo aiuto, ti chiamo salvami, ti chiamo annego
e non voglio darti questi no(m)i.
(non si può vivere,
non si può scrivere,
non si può.)
stacca il mondo come un chiodo.
cado.
non trovo rifugio.
il ripetersi delle notti e dei giorni,
il ripetersi, e ancora,
uguale, dio ancora lo stesso giorno, no,
non mi aggrappo.
faccio, faccio disperatamente faccio,
mi faccio di futuro in endovena
e le occhiaie poco erotiche di eroina,
che il problema è il tempo,
io non vedo più
lo scorrere del tempo verso dove.
ti amo, ti amo, ti amo
o forse solo ti chiamo dove sei,
pronto, ma a che cosa, pronto, ma come si fa,
forse solo ti chiamo aiuto, ti chiamo salvami, ti chiamo annego
e non voglio darti questi no(m)i.
(non si può vivere,
non si può scrivere,
non si può.)
sabato 15 febbraio 2014
la montagna d'argilla
La sera tardi
nella piccola casa sulla montagna grande
torna il Gatto Riccardo e cerca voci oltre la neve,
che la neve
cade in silenzio
e non è delicata
(ma i cittadini, lo dimenticano).
La sera tardi
nella casa fragile sulla montagna d'argilla,
giovani umani
arrampicati alla vita inventano cibi
e futuri imprevisti,
l'urbanesimo in direzione contraria
somiglia ad umanesimo.
Un battesimo.
La sera tardi
sul letto sotto il tetto
di legno della casa umida
giovani mani si cercano, si tengono, come se
fosse parlabile
questo lasciare impronte sui palmi
dei loro sogni.
La sera tardi
se esci dalla casa sulla montagna d'argilla
respiri resistenza, altre leggi,
sotto un albero generoso
a braccia aperte sotto la neve
accendi un fuoco dentro la neve,
la neve profonda,
"il destino è tramontare, sgretolarsi":
la montagna crolla e uccide
il piccolo treno,
la montagna culla, consolando
nel suo ventre la sua fine.
Ma
la sera è tardi,
per la casa, la montagna e l'argilla,
è tardi per la neve,
il Gatto Ritardo,
i giovani umani erano,
quanti sono venticinque anni,
la sera è tardi,
un solo ultimo sole,
si son sciolti
i lampioni sotto la neve,
forse moriremo oggi,
in questa salita finale,
e non tradurremo
Oἳ σύνέχειν ἀλλά συμπάθειν ἒΦυν,
che è tardi per il gioco
per il greco
per il treno
per l'autostop della vecchia infermiera,
infermiera per vecchi
per i quali è troppo tardi, per quanti anni
esce col buio, l'autostrada, la pioggia,
esce e si trova sola nel suo ringraziare
e ringraziare la solitudine, e non trovarsi più,
l' uscire di nuovo col buio, l'autostrada, la pioggia,
è tardi per le gambe, tardi per la salita,
la passeggiata è finita e anche le ciaspole,
finite, tardi,
è tardi per la campana,
per la capanna nascosta, è tardi per le parole
per la vita da cui provieni, che visse la capanna, che scrisse sulla pietra
le parole "è tardi",
come campane che battono, troppo tardi,
per lo straniero strano che vive un esitare
e un esitare e ora
timido e curioso veglia gli alberi, non sente la campana
e la capanna lui
non sa collegarla alle parole scritte sulla pietra,
né alla vita che ora è passata davanti ai suoi occhi,
la vita passata, e ormai
affidata ai tuoi occhi, alle tue gambe,
e mai lo saprà, perché è tardi
e invece trova
quadri di paesaggi abbandonati e li appende e mostra
come segreti da vedere, da capire che è tardi,
per la foresta inclinata penzolante protesa verso il precipizio verso
il mare, lontano,
tardi per l'infanzia di un padre che non la rivuole, tardi,
un'infanzia a picco sul mare, un precipizio
per toccare l'acqua del mare con i piedi nudi, è tardi,
per il Mare tra le Terre, tardi,
per il cartello ANTIBES che crudele esiste ancora
e ormai è tardi per tornare
dove muore un padre,
è tardi per immaginare, o chiedersi, troppo tardi per salvare,
e anche, è tardi
per il bianco della neve e il rosso della pelle, le labbra e il mischiarsi,
mischiarsi di ricordi non miei ma di cui sono
ospite, o figlia, tardi per i fogli che non mi prevedevano e invece,
è tardi per le stelle ridenti,
e per chiederci di nuovo
dov'è il sole di notte, e per crederci di nuovo, che c'è ancora,
è tardi per le tristezze larghe,
per il tuo terrore di me,
per la tua rabbia notturna
e il tuo consolarmi all'alba è tardi,
per esserci capiti
e il mio trauma panico,
rivederti
è stato tutto in un momento
tutto era tardi mentre era compiuto,
tu lo sapevi
e io lo tacevo.
venerdì 3 gennaio 2014
protolangue
S'incontrarono che era inverno in un'altra lingua. Non avevano le parole giuste, mai, ma avevano la voglia di fare fatica, e che fosse fàtica. Usavano le parole sbagliate nel modo oscuro e bello, se le toglievano a vicenda dalle tasche e le guardavano saltellare via, effimere come grilli, o lucciole. Come loro. Come loro, sfioravano spesso l'orlo di uno scomparire, una dissolvenza ineluttabile li aspettava al fondo della tela di fondo che fingeva un cielo, e lo sapevano, ma lo sorridevano via. Le parole erano un caso, un mondo improbabile che aveva anche un nome logico e ridicolo, "lambdà", un mondo con l'accento. Le parole erano un caos, cascavano e tremavano in tutte le lingue, e dopo schnocks e uruluburu abbandonarono definitivamente l'alveo delle neolatine. Alcune restavano impigliate tra i capelli di lei, creando nodi ingiustificabili dinanzi alle leggi del mondo normale, che non esagerava e si chiamava solo mondo w, o "doublevé". Ma la condanna di w non valeva (in) lambda, i nodi erano nidi, per esperare insieme futuri interiori. Le parole appoggiate sulle labbra facevano il solletico, facevano i baci, le parole scivolate in fondo agli occhi innescavano visioni halucinatoires, e li tenevano in bilico ognuno sull'abisso dell'altro, per giorni senza sonno e senza cibo. Le parole nascoste nelle maniche cadevano per terra senza rompersi, le parole electroswing li facevano ballare da lupi, con le parole sporche si lavavano l'un l'altra dal tanfo benpensante all'amuchina, e si profumavano di lavanda e di loro, con le parole dolci accendevano fuochi per scaldarsi in cima a colline ghiacciate con vista banlieue, le parole anarchiche li facevano arrampicare oltre i limiti di notti e cancelli, nessuna parola, mai, li autorizzava. Altre parole avvolgevano le mani di lui, disegnando tante nuove linee irregolari sui suoi palmi, e allora gli bastava accarezzarla. E le diceva di carne di marmo, di sangue e neuroni, di sogni ed umani, di rivoluzioni esperimenti, di pirati e ricerche, attraverso il tempo, di ignoto, di morte, di amare et se moquer. La loro lingua era meno, era una protolingua, fragile e millenaria, non si consolidava mai perché la radice di ogni lemma significava "sbriciolarsi" e il nome proprio più diffuso era Effimero. Così la lingua passava, dimenticava il senso e l'interpretazione e si doveva sempre ricominciarla dagli occhi, dal silenzio aperto che li faceva tremare. Traducevano piangere, ridere, amare, musica, dolore, si traducevano per mano per strada cantando il buio e l'ivresse, si traducevano agli amici, si traducevano il cinema, il teatro e i fumetti, si traducevano nelle sinapsi dell'altro da elettricità a chimica a décharge, si traducevano dalla corteccia alla colonna, traducevano il metrò in trome, poi in traume e in sogno, traducevano le feste in tempeste, le discussioni in mondi possibili, i loro estranei in loro simili, le fragilità in abbracci, si traducevano nei corpi e nelle anime, si traducevano le vite, e tradivano, sì, ma solo il replicare, il senso letterale.
S'incontrarono che era inverno in una voce, che era la carne delle parole, e le confusero tutte, e si fusero-con la bozza di un pensiero antico e antiadattivo, radiattivo, prezioso non come l'oro ma come l'orlo, cioè come loro.
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