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Paris, France
Gaia Barbieri nasce e vive nonostante tutto come il basilico a Lausanne, da trentaquattro anni e più che altro per curiosità. ...JeSuisUnAutre...

tempi persi

venerdì 3 gennaio 2014

protolangue


S'incontrarono che era inverno in un'altra lingua. Non avevano le parole giuste, mai, ma avevano la voglia di fare fatica, e che fosse fàtica. Usavano le parole sbagliate nel modo oscuro e bello, se le toglievano a vicenda dalle tasche e le guardavano saltellare via, effimere come grilli, o lucciole. Come loro. Come loro, sfioravano spesso l'orlo di uno scomparire, una dissolvenza ineluttabile li aspettava al fondo della tela di fondo che fingeva un cielo, e lo sapevano, ma lo sorridevano via. Le parole erano un caso, un mondo improbabile che aveva anche un nome logico e ridicolo, "lambdà", un mondo con l'accento. Le parole erano un caos, cascavano e tremavano in tutte le lingue, e dopo schnocks e uruluburu abbandonarono definitivamente l'alveo delle neolatine. Alcune restavano impigliate tra i capelli di lei, creando nodi ingiustificabili dinanzi alle leggi del mondo normale, che non esagerava e si chiamava solo mondo w, o "doublevé". Ma la condanna di w  non valeva (in) lambda, i nodi erano nidi, per esperare insieme futuri interiori. Le parole appoggiate sulle labbra facevano il solletico, facevano i baci, le parole scivolate in fondo agli occhi innescavano visioni halucinatoires, e li tenevano in bilico ognuno sull'abisso dell'altro, per giorni senza sonno e senza cibo. Le parole nascoste nelle maniche cadevano per terra senza rompersi, le parole electroswing li facevano ballare da lupi, con le parole sporche si lavavano l'un l'altra dal tanfo benpensante all'amuchina, e si profumavano di lavanda e di loro, con le parole dolci accendevano fuochi per scaldarsi in cima a colline ghiacciate con vista banlieue, le parole anarchiche li facevano arrampicare oltre i limiti di notti e cancelli, nessuna parola, mai, li autorizzava. Altre parole avvolgevano le mani di lui, disegnando tante nuove linee irregolari sui suoi palmi, e allora gli bastava accarezzarla. E le diceva di carne di marmo, di sangue e neuroni, di sogni ed umani, di rivoluzioni esperimenti, di pirati e ricerche, attraverso il tempo, di ignoto, di morte, di amare et se moquer. La loro lingua era meno, era una protolingua, fragile e millenaria, non si consolidava mai perché la radice di ogni lemma significava "sbriciolarsi" e il nome proprio più diffuso era Effimero. Così la lingua passava, dimenticava il senso e l'interpretazione e si doveva sempre ricominciarla dagli occhi, dal silenzio aperto che li faceva tremare. Traducevano piangere, ridere, amare, musica, dolore, si traducevano per mano per strada cantando il buio e l'ivresse, si traducevano agli amici, si traducevano il cinema, il teatro e i fumetti, si traducevano nelle sinapsi dell'altro da elettricità a chimica a décharge, si traducevano dalla corteccia alla colonna, traducevano il metrò in trome, poi in traume e in sogno, traducevano le feste in tempeste, le discussioni in mondi possibili, i loro estranei in loro simili, le fragilità in abbracci, si traducevano nei corpi e nelle anime, si traducevano le vite, e tradivano, sì, ma solo il replicare, il senso letterale.                   
S'incontrarono che era inverno in una voce, che era la carne delle parole, e le confusero tutte, e si fusero-con la bozza di un pensiero antico e antiadattivo, radiattivo, prezioso non come l'oro ma come l'orlo, cioè come loro.

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