Ma Frida, dove vai? Dove mi porti?
Me lo chiedo che son già per strada e non mi fermo.
Me lo chiedo che son già per strada e non mi fermo.
Perché la mattina, quando ho paura di scomparire, con un automatismo solo fisico mi alzo mi vesto e vado al mercato. Lì, apro gli occhi. Sfilo muta tra il frastuono dei colori dei quadri che ho lasciato per sempre a metà, tra le voci che ho perso, tra tutti i volti che potevo avere e invece no. Le associazioni mi travolgono, dimentico di respirare e mi sembra
che tutto sia già accaduto. Mi sembra di essere alla fine.
Vedo tutti questi esseri vivi, li vedo in bilico, in punta
di piedi sull’estremo punto del tempo passato - del fino-ad-ora – protesi,
sbilanciati senza averne coscienza verso il baratro del tempo futuro, del
d’ora-in-poi. Tendono le mani aperte al pescivendolo e al vuoto che verrà.
Ma adesso è il futuro più futuro di tutto il tempo
dell’universo. L’avanguardia siamo noi che ci troviamo ad esistere ora. Ora.
Ora. Tutto nella storia è passato, distrutto, cambiato, nato e morto per
arrivare a forgiare questa mattina che finisce. Ne è valsa la pena?
Li vedo scivolare in serie, cadono nel precipizio vivi senza
farci caso.
Ho le vertigini.
Uno dei volti stamattina mi frusta gli occhi con l’evidenza
delle cose perse. Che effetto mi fa Agnès che passa veloce, si fa largo tra la
gente, chiede permesso, non sembra felice e non guarda nessuno? Non avrò il
tempo di fermarla. Non ci sarà il tempo per chiederle che fine hai fatto, che
ne è del tuo amore, e della tua fragilità, hai poi scritto altre filastrocche,
ripensi mai a noi. Non ci sarà il tempo di guardarsi e domandarsi in silenzio
chi abbia tagliato via il tempo che pensavamo ci sarebbe stato.
Amica mia, ricordi che s’era sorelle, io e te? Poi qualcosa
è andato storto, un nodo si è sciolto, ci hanno tolto un brillare dagli occhi, la sfumatura
che davamo insieme alle cose. Ci siamo fatte grandi.
E’ andata, ormai, è lontana. Non c’è stato il tempo.
E’ andata, ormai, è lontana. Non c’è stato il tempo.
Cavalco velocissimi destrieri di nostalgia, tutto avviene in
così breve spazio, tutto è l’istante che finisce anche quest’altra mattina.
Capisco. Quello che ho già capito e dimenticato, che poi ancora dimenticherò, e
ancora. Stanotte ho sognato di essere sola nella sala di un museo con le pareti
rosse, tutti i miei quadri erano appesi alle pareti, ognuno affiancato dalla
sua didascalia con titolo, anno e descrizione. Una vita riassunta, tutto così
semplice. Ma mentre li guardavo il rosso è colato dai muri e li ha inghiottiti.
Quadri e didascalie. Sono rimaste le forme, i simulacri rossi appesi ai muri,
li ho toccati ed erano freddi gelati come il mio cadavere quando morirò
giovane, non avrò più tempo, farà così freddo, avrò bisogno di un fuoco
“Seňorita, que passa, seňorita?”
Mi sorprendo stupita a piangere mentre cerco i soldi per
pagare le arance, che scivolano e rotolano per terra inesorabili come la
fisica. Sorrido ridicola, e annaspo nella comicità dell’esigenza di cercare i
soldi, adesso, e insieme inseguire le arance. Che fuggono, obbedienti come
tutto alle leggi cosmiche.
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